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Italian to English: L’unica virtù necessaria, L.Bruni 28.07.19 General field: Art/Literary Detailed field: Poetry & Literature
Source text - Italian L’unica virtù necessaria
Profezia è storia/9 - I profeti tentatori parlano la stessa lingua di quelli onesti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/07/2019
«Qualcuno mi disse: non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino.»
Jorge Luis Borges, La scrittura del dio
Si può essere profeti veri anche senza virtù, ma non senza obbedienza al compito ricevuto. È questo uno dei sensi della parabola dei due profeti dei Libri dei Re. Un altro è che solo i profeti veri possono smarrire la via.
Nella vita le motivazioni contano, qualche volta contano molto. Ci spiegano i tradimenti, le fedeltà e le infedeltà, ne aumentano o ne riducono le responsabilità. È vero, lo sappiamo e lo reimpariamo ogni giorno sulla nostra pelle e su quella degli altri. Ma in alcuni eventi veramente decisivi i comportamenti contano più delle loro motivazioni. Posso darti e darmi tutte le ragioni perché quel giorno ho deciso di ascoltare una voce che mi ha portato lontano da te, ma ciò che veramente conta è che sono uscito di casa e non sono tornato più. Questa verità antropologica diventa una verità assoluta nelle vocazioni profetiche. La parabola del profeta disobbediente e del profeta bugiardo ce lo dice con rara bellezza.
Siamo arrivati a un evento centrale della storia d’Israele. Il Regno di Davide e Salomone si divide, la terra della promessa si squarcia in due. Le tribù del Nord (Israele) si separano da quella di Giuda. Il Nord del Paese segue un nuovo re, Geroboamo, mentre il Sud resta con Roboamo, figlio di Salomone. L’inizio dello scisma è segnato dall’azione di un profeta, di nome Semaia – i nomi dei profeti vanno sempre detti, perché pronunciarli è benedizione: «La parola di Dio fu rivolta a Semaia, uomo di Dio: "Riferisci a Roboamo... Così dice il Signore: non salite a combattere contro i vostri fratelli israeliti"... Ascoltarono la parola del Signore e tornarono indietro» (1 Re 12,22-24). I profeti continuano a salvare il popolo dai fratricidi. E sono due profeti i protagonisti di uno dei testi più misteriosi della Bibbia.
«Un uomo di Dio, per comando del Signore, si portò da Giuda a Betel, mentre Geroboamo stava presso l’altare per offrire incenso» (13,1). Un profeta ("un uomo di Dio"), del Sud, si reca, «per comando di YHWH» nel Nord, per trasmettere a Geroboamo una parola di YHWH sulla futura distruzione dell’altare di Betel (13,2) e per compiere un segno: «Questo è il segno che il Signore parla: ecco, l’altare si spezzerà e sarà sparsa la cenere che vi è sopra» (13,3). Geroboamo alza la mano e prova a fermarlo (13,4), ma la sua mano divenne inaridita. Il re prega il profeta che la sua mano torni sana, e lo ottiene. Quindi «all’uomo di Dio il re disse: "Vieni a casa con me per ristorarti; ti darò un regalo"» (13,7). Il profeta risponde: «Anche se mi darai metà della tua casa, non verrò con te e non mangerò pane né berrò acqua in questo luogo, perché così mi è stato ordinato per comando del Signore: "Non mangerai pane e non berrai acqua, né tornerai per la strada percorsa nell’andata"» (13,8-9). Si chiude la prima scena: il profeta rifiuta l’offerta del dono (i doni dei potenti sono sempre pericolosi), e svela l’ordine che aveva ricevuto da YHWH. E obbedisce al "comando".
Seconda scena. «Ora abitava a Betel un vecchio profeta, al quale i figli andarono a raccontare quanto aveva fatto quel giorno l’uomo di Dio a Betel» (13,11). Il vecchio profeta di Betel andò incontro al profeta di Giuda. Gli disse: «"Sei tu l’uomo di Dio venuto da Giuda?". Rispose: "Sono io"» (13,14). Il vecchio profeta gli fa la stessa offerta del re: «"Vieni a casa con me per mangiare del pane"» (13,15). E ottiene la stessa risposta: «"Non posso tornare con te né venire con te; non mangerò pane e non berrò acqua in questo luogo, perché mi fu rivolta una parola per ordine del Signore: "Là non mangerai pane e non berrai acqua, né ritornerai per la strada percorsa all’andata"» (13,16-17). Fin qui la storia ha una sua logica: il profeta di Giuda sta svolgendo la sua missione, fedele al comando.
Ma ecco la svolta narrativa: «Quegli disse: "Anche io sono profeta come te; ora un angelo mi ha detto per ordine del Signore: fallo tornare con te nella tua casa, perché mangi pane e beva acqua"». E subito il testo aggiunge: «Egli mentiva a costui». Ma il profeta di Giuda «ritornò con lui, mangiò pane nella sua casa e bevve acqua» (13,18-19). Il vecchio profeta dice una bugia – nella traduzione aramaica della bibbia ebraica (il Targun) il vecchio profeta è costantemente chiamato "bugiardo". Non sappiamo il perché di questa bugia. Il profeta di Giuda credette alla parola del profeta di Betel (13,19) e al nuovo "ordine", e quindi disobbedisce al comando ricevuto da Dio. Questa azione è quanto conta nella storia.
Ma eccoci a una seconda svolta: «Mentre essi stavano seduti a tavola, la parola di YHWH fu rivolta al profeta che aveva fatto tornare indietro l’altro, ed egli gridò all’uomo di Dio che era venuto da Giuda: "Così dice il Signore: poiché ti sei ribellato alla voce del Signore, non hai osservato il comando che ti ha dato il Signore …, il tuo cadavere non entrerà nel sepolcro dei tuoi padri"» (13,20-22). Il profeta bugiardo riceve un autentico oracolo di Dio, che condanna il profeta di Giuda.
E infatti, non appena questi riprende il cammino, il racconto subisce la sua terza torsione: «Egli partì e un leone lo trovò per strada e l’uccise; il suo cadavere rimase steso sulla strada» (13,24). Saputo dell’accaduto, il profeta di Betel disse: «Quello è un uomo di Dio che si è ribellato alla voce del Signore; per questo il Signore l’ha consegnato al leone, che l’ha fatto a pezzi e l’ha fatto morire, secondo la parola che gli aveva detto il Signore» (13,26). Con questa morte il vecchio capisce l’autenticità del profeta disobbediente e anche della sua propria parola, confermata anche dall’innaturale comportamento dell’animale («Il leone non aveva mangiato il cadavere né fatto a pezzi l’asino» 13,28). Un altro episodio biblico dove gli animali diventano alleati di Dio e parlano ai profeti.
Importante è infatti la conclusione che contiene l’ultima sorpresa della storia: «Il profeta prese il cadavere dell’uomo di Dio, lo adagiò sull’asino e lo portò indietro ... Dopo averlo sepolto, disse ai figli: "Alla mia morte ... porrete le mie ossa vicino alle sue». E conclude: «Poiché certo si avvererà la parola che egli gridò, per ordine del Signore, contro l’altare di Betel» (13,29-32). La morte del profeta e le circostanze fanno comprendere al vecchio profeta la verità della parola portata dal profeta disobbediente. Il profeta muore, il suo messaggio, se è vero, no.
Un racconto splendido. La Bibbia continua a farci doni imprevisti. Quale il senso di questa parabola? Non lo sappiamo con certezza. Probabilmente, come suggerì già Karl Barth, la collocazione del racconto all’inizio dello scisma di Israele svela un messaggio legato a questo grande trauma. Non è da escludere che il profeta del Nord simboleggi Israele quello di Giuda il regno del Sud, e il leone sia immagine di Nabucodonosor che "uccise" la tribù di Giuda senza divorarla (ma deportandola), ed essa mentre "muore" rivela la verità della sua missione e del messaggio.
Ma questo racconto può contenere anche una grammatica delle vocazioni profetiche, e quindi di ogni vocazione. Il tema più appassionante riguarda infatti l’obbedienza a una chiamata, la fedeltà a un compito. In tutta la parabola profetica, all’autore non interessano le motivazioni dei personaggi. Contano le azioni. Non sappiamo perché il re invitò il profeta a casa, perché il vecchio profeta mentì, né perché il profeta di Giuda credette alla bugia. Ed è proprio in questa laicità dei fatti dove si nasconde il gioiello del racconto.
Nelle vocazioni contano i comportamenti. Le vocazioni sono essenzialmente ed esclusivamente un comando di una voce e un’altra voce che risponde "eccomi" (avevo aggiunto "liberamente", poi l’ho cancellato: la libertà è troppo poco per capire una vocazione, perché è destino). Quando ho incontrato una voce che mi ha dato un "comando", ciò che veramente conta è obbedire a quel comando. Si deve fare soltanto quello, il resto – che pure c’è – non conta. E se non lo faccio, perché credo a un angelo o perché un vecchio profeta mi inganna e mi seduce, la vocazione va a male. Questo racconto dei due profeti dice ancora un’altra cosa: la vocazione va a male anche se è vera. La disobbedienza è il fallimento dei profeti veri – i falsi profeti non possono disobbedire, perché non hanno ricevuto nessun compito. Solo i profeti veri smarriscono la via – questa parabola è costellata da parole legate alla strada: andare, tornare, ritornare, via.
Noi facciamo di tutto per trasformare le vocazioni in faccende morali, e la Bibbia ci continua a ripetere che sono altro. Sono partire da Giuda con un messaggio ricevuto come comando, partire perché quando una voce chiama si può solo partire; annunciare il messaggio, non accettare le offerte dei potenti, neanche "metà del loro regno", poi fare molta attenzione alla strada, perché non tutte le strade sono buone. E mentre si torna a casa non ascoltare né i profeti né gli angeli di Dio se ci dicono di fare qualcosa di diverso dal compito che abbiamo ricevuto. E questa è la tentazione più difficile, molto più difficili delle offerte dei re e dei potenti, perché i profeti tentatori parlano la stessa lingua di quelli onesti. Quel vecchio profeta non era necessariamente un falso profeta. Poteva semplicemente essere solo un profeta bugiardo (anche i profeti veri fanno peccati e dicono bugie). Alla Bibbia non interessa parlarci delle virtù del vecchio profeta, ma narrarci la storia del fallimento di una vocazione profetica vera – ma non del suo messaggio.
La morte del profeta è iscritta nella sua disobbedienza. Quell'uomo di Dio venuto da Giuda, per la Bibbia era già profeticamente morto quando il leone lo trovò lungo la strada sbagliata: quel leone uccise un profeta morto – e quindi non c’era nulla da divorare, perché le vocazioni non sono carne commestibile. L’obbedienza è la prima virtù dei profeti, forse l’unica davvero necessaria. Un profeta può essere cattivo, bugiardo, vizioso, ma muore se smette di obbedire al suo destino e al suo compito. Ho conosciuto profeti che alla fine della vita hanno portato con sé soltanto l’obbedienza: si era spento tutto, persino l’agape, e sono arrivati in cielo portando l’obbedienza alla prima voce come loro unica, meravigliosa, dote.
I libri dei Re non danno un nome a quei due profeti. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe dona invece un nome di quel profeta fallito venuto dal Sud per rispondere a una voce: Jadon. Chiamiamolo per nome un’ultima volta, perché anche un profeta fallito può custodire una benedizione.
Translation - English The only virtue needed
Prophecy is history / 9 - The tempting prophets speak the same language as the honest ones
By Luigino Bruni
Published in the Avvenire 28/07/2019
«Someone told me: you did not wake up to the vigil but to a previous dream. This dream is inside another dream and another and so forth in infinity. The road that you will have to travel backwards is endless and you will die before you really wake up. A man gradually merges with the shape of his destiny.»
Jorge Luis Borges, The writing of god
One can be a true prophet even without virtue, but not without obedience to the task received. This is one of the meanings of the parable of the two prophets in the Book of Kings. Another meaning is that only true prophets can lose their way.
In life motivations matter, sometimes a lot. They explain betrayals, loyalties and infidelities, increase or reduce their responsibilities. It is true, we know it and we re-learn it every day through our own personal experience and that of others. But in some truly decisive events, behaviour counts more than the motivations behind it. I can give you and give myself all the reasons why on that particular day I decided to listen to a voice that took me far away from you, but what really matters is that I left home and never came back. This anthropological truth becomes an absolute truth in prophetic vocations. The parable of the disobedient prophet and the lying prophet tells us precisely this with rare beauty.
We have arrived at a central event in the history of Israel. The Kingdom of David and Solomon is divided, the land of promise is torn in two. The tribes of the North (Israel) separate themselves from that of Judah. The north of the country follows a new king, Jeroboam, while the south remains with Rehoboam, son of Solomon. The beginning of the schism is marked by the action of a prophet, named Semaiah - the names of the prophets must always be spoken, because pronouncing them is a blessing: "This word of God came to Shemaiah the man of God: "Say to Rehoboam... This is what the LORD says: Do not go up to fight against your fellow Israelites"... So they obeyed the word of the LORD and went home again, as the LORD had ordered" (1 Kings 12,22-24). The prophets continued to save the people from fratricide. And two prophets are the protagonists of one of the most mysterious texts in the Bible.
"A man of God, by command of the Lord, took himself from Judah to Bethel, while Jeroboam stood by the altar to offer incense" (1 Kings 13,1). A prophet ("a man of God"), of the South, goes, "by command of YHWH" to the North, to relate to Jeroboam the word of YHWH on the future destruction of the altar of Bethel (1 Kings 13.2) and to accomplish a sign: "This is the sign that the Lord speaks: behold, the altar will be broken and the ash that is on it will be scattered" (1 Kings 13,3). Jeroboam raises his hand and tries to stop him (1 Kings 13.4), but his hand suddenly becomes withered. The king begs the prophet to turn his hand healthy again and so he does. Therefore "to the man of God the king said:" Come home with me for a meal; I will give you a gift" (1 Kings 13,7). The prophet replies: "Even if you give me half your house, I will not go with you and will not eat bread or drink water in this place, for I was commanded by the word of the Lord: "You will not eat bread and drink water, you will return by the road travelled in the outward journey" (1 Kings 13,8-9). The first scene ends with: the prophet rejects the offer of the gift (the gifts of the powerful are always dangerous), and reveals the order he had received from YHWH. And obeys the "command".
Second scene. "Now an old prophet lived in Bethel, to whom his sons went to tell how much the man of God had done that day at Bethel" (1 Kings 13:11). The old prophet of Bethel went to meet the man of God of Judah. He said to him: «"Are you the man of God who came from Judah?" He replied: "It is I"» (1 Kings 13:14). The old prophet makes exactly the same offer the king did before him: «"Come home with me to eat bread"» (1 Kings 13:15). And he gets the same answer: «"I cannot go back with you or come with you; I will not eat bread or drink water in this place, because a word was addressed to me by the Lord's command: "There you will not eat bread and drink water, nor will you return by the road travelled to the outward journey"» (1 Kings 13.16-17). Up to this point the story has a logic of its own: the prophet from Judah is carrying out his mission, faithful to the command.
But suddenly there is a turning point in the narrative: «He said: "I too am a prophet like you; now an angel has told me by order of the Lord: make him come back with you to your house, so that he may eat bread and drink water"». And immediately the text adds: "He was lying to him". But the man of God from Judah "returned with him, ate bread in his house and drank water" (1 Kings 13,18-19). The old prophet tells a lie - in the Aramaic translation of the Hebrew Bible (the Targum) the old prophet is constantly called a "liar". We do not know the reason for this lie. The man of God from Judah believed the word of the prophet of Bethel (1 Kings 13:19) and the new "order", and therefore disobeys the command received from God. This action is what counts in the story.
But here we have a second turning point: «While they were sitting at the table, the word of YHWH was addressed to the prophet who had made the other turn back, and he cried out to the man of God who had come from Judas: "Thus says the Lord: since you rebelled against the voice of the Lord, you did not observe the command that the Lord gave you ..., your corpse will not enter the tomb of your fathers"» (1 Kings 13,20-22). The lying prophet receives an authentic oracle from God, which condemns the man of God from Judah.
And in fact, as soon as he resumes his journey, the story is subject to a third twist: «He left and a lion found him on the street and killed him; his corpse lay on the road» (1 Kings 13,24). Knowing what had happened, the prophet of Bethel said: "That is a man of God who has rebelled against the voice of the Lord; this is why the Lord handed him over to the lion, who cut him to pieces and put him to death, according to the word the Lord had told him "(1 Kings 13,26). With this death the old man understands the authenticity of the disobedient prophet and also of his own word, also confirmed by the animal's unnatural behaviour ("The lion had neither eaten the body nor mauled the donkey" 1 Kings 13.28). Another biblical episode where animals become God's allies and speak to the prophets.
In fact, the conclusion containing the last surprise of the story is important: "The prophet took the corpse of the man of God, laid him on the donkey and brought him back ... After having buried him, he said to his children: "On my death ... you will put my bones next to his. "And he concludes: "For surely the word will come true that he cried out, by the command of the Lord, against the altar of Bethel" (13:29-32). The death of the man of God and the circumstances surrounding it make the old prophet understand the truth of the word brought by the disobedient prophet. The prophet dies, but his message, if true, does not.
A splendid story. The Bible continues to give us unexpected gifts. What is the meaning of this parable? We do not know for sure. Probably, as Karl Barth suggested, the location of the story at the beginning of the schism of Israel reveals a message linked to this great trauma. It is not to be excluded that the prophet of the North symbolizes Israel that of Judas the kingdom of the South, and that the lion is an image of Nebuchadnezzar who "killed" the tribe of Judah without devouring it (but deporting it), and it "dies" revealing the truth of his mission and message.
But this story can also contain the basis for prophetic vocations, and therefore the syntax for every vocation. The most exciting topic is in fact the obedience to a call, the loyalty to a task. Throughout the prophetic parable, the author is not interested in the motivations of the characters. Actions count. We do not know why the king invited the prophet home, why the old prophet lied, nor why the man of God from Judah believed him. And it is precisely in this secularity of the facts where the true gem of the story is hidden.
Behaviour counts in vocations. Vocations are essentially and exclusively the command of a voice and another voice that answers "here I am" (I added "freely", then I deleted it: freedom is too small a concept to understand a vocation, because it is essentially destiny). When I meet a voice that gives me a "command", what really matters is to obey that command. Only this has to be done, the rest - which is also there - does not count. And if I don't obey, because I believe in an angel or because an old prophet deceives me and seduces me, the vocation turns bad. This story of the two prophets tells us another thing as well: vocation goes bad even if it is true. Disobedience is the failure of true prophets - false prophets cannot disobey, because they have received no task. Only true prophets lose their way - this parable is full with words related to the road: to go, to return, to go back, to go far away.
We do everything we can to transform vocations into moral affairs, and the Bible keeps repeating to us that they are actually something else entirely. It begins with Judas and a message received as a command, begins because when a voice calls you can only begin/start; announce the message, not accept the offers of the powerful, not even "half of their reign", then pay close attention to the road, because not all roads are good. And while returning home, do not listen to either the prophets or the angels of God if they tell us to do something different from the task we have received. And this is the most difficult temptation, much more difficult than the offerings of the kings and the powerful, because the tempting prophets speak the same language as the honest ones. That old prophet was not necessarily a false prophet. He could simply be just a lying prophet (even true prophets commit sins and tell lies). The Bible is not interested in talking about the virtues of the old prophet, but in telling us the story of the failure of a true prophetic vocation - not of its message.
The death of the prophet is written in his disobedience. That man of God who came from Judah, was already prophetically dead for the Bible when the lion found him on the wrong path: that lion killed a dead prophet - and therefore there was nothing to devour, because vocations are not edible flesh. Obedience is the first virtue of the prophets, perhaps the only really necessary one. A prophet can be bad, a liar, vicious, but he will die if he stops obeying his destiny and his task. I met prophets who at the end of their lives brought only obedience with them: everything had died down, even the agape, and they arrived in heaven bringing obedience to the first voice heard as their only, unique, marvellous gift.
The Book of Kings does not give a name to those two prophets. The Jewish historian Flavius Joseph instead gives a name to that failed prophet who came from the South to respond to the calling of a voice: Jadon. Let's call him by name one last time, because even a failed prophet can guard and bring a blessing.
Italian to English: Anche una sola riga di luce, L.Bruni 22.09.19 General field: Art/Literary Detailed field: Poetry & Literature
Source text - Italian Anche una sola riga di luce
Profezia è storia/16 - Una seconda domanda, a volte, porta alla risposta giusta e inascoltata
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/09/2019
«Il nome di Elia da angelo è Sandalfon, tra i più grandi e terribili di tutta la schiera, con il compito di intrecciare per il Signore delle corone con le preghiere, e di offrire sacrifici al santuario invisibile, dato che il Tempio è stato distrutto solo all’apparenza, ma continua a esistere.»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
La distinzione tra vera e falsa profezia attraversa tutta la Bibbia. Questo Racconto aggiungi nuovi elementi alla comprensione dei profeti e della loro funzione, ieri e oggi.
La profezia biblica, sebbene unica, ci offre un paradigma per comprendere meglio alcuni fenomeni decisivi nelle nostre società e comunità. Cambiano le forme, i modi, le parole, ma ancora oggi ci sono profeti falsi, e sono legioni; profeti veri che in buona fede dicono sciocchezze, altri onesti che dicono spesso parole vere ma non sempre. E soprattutto ci sono potenti che pur riconoscendo le parole vere dei profeti non le ascoltano. E muoiono. «Trascorsero tre anni senza guerra fra Aram e Israele. Nel terzo anno Giosafat, re di Giuda, scese dal re d’Israele. Ora il re d’Israele... disse a Giosafat: "Verresti con me a combattere per Ramot di Gàlaad?". Giosafat rispose al re d’Israele: "Conta su di me come su te stesso"» (1 Re 22,1-4). Dopo la parentesi (meravigliosa) della vigna di Nabot, eccoci di nuovo nel contesto bellico aperto nel capitolo 20. Giosafat, re di Giuda, si reca in visita politica nel Nord. Acab gli propone di affiancarlo in una guerra di riconquista di territori occupati dagli aramei (Ramot di Gàlaad). Giosafat accetta ma chiede ad Acab di consultare prima i profeti (22,5). Consultare il proprio Dio prima di intraprendere un’impresa militare era molto comune nel mondo antico. Israele si trova ancora in una zona di confine tra lo sciamanesimo arcaico e il profetismo più maturo dei secoli successivi: «Il re d’Israele radunò i profeti, quattrocento persone, e domandò loro: "Devo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?". Risposero: "Attacca; il Signore la metterà in mano al re"» (22,6).
Quattrocento profeti di YHWH. Un numero notevole, che ricorda quelli di Baal (450) sgozzati da Elia sul monte Carmelo. Nella Bibbia i re e il potere non hanno un rapporto facile con i profeti. Ne hanno bisogno, ma hanno paura dei profeti veri perché liberi e imprevedibili. Il responso dei profeti è interamente dalla parte della guerra: 100% di favorevoli. Ma l’umanesimo biblico non ama l’unanimità. L’assenza di contraddittorio è un brutto segnale. Perché Dio parla nella diversità e nella sinfonia delle voci. La monotonia di questi accordi indica quasi sempre un imbroglio. Questa unanimità insospettisce anche Giosafat, evidentemente più esperto di vita e di Dio, e chiede un’altra prova: «Giosafat disse: "Non c’è qui ancora un profeta di YHWH da consultare?"» (22,7). Acab rispose a Giosafat: «C’è ancora un uomo… ma io lo detesto perché non mi profetizza il bene, ma il male: è Michea, figlio di Imla» (22,8). Acab odia Michea. I re detestano i profeti di sventura (della loro), anche quando sanno che sono profeti veri e onesti. Qui troviamo un’eco di Geremia, che si troverà a condividere la stessa sorte di Michea. Giosafat riesce a ottenere che Michea venga chiamato a corte. Interessante è il dialogo tra l’eunuco e Michea: «Il messaggero, che era andato a chiamare Michea, gli disse: "...la tua parola sia come quella degli altri: preannuncia il successo!". Michea rispose: "Per la vita di YHWH, annuncerò quanto YHWH mi dirà"» (22,13-14). Come molti collaboratori ruffiani, al funzionario non interessa la verità vuole solo assecondare il suo capo. Una scena molto comune, che nel racconto serve a rendere esplicito che Michea è un profeta vero.
Ma ecco il primo colpo di scena: Michea, la cui fama di profeta di sventura ci è nota, ci spiazza: «Si presentò al re, che gli domandò: "Michea, dobbiamo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o rinunciare?". Gli rispose: "Attaccala e avrai successo; YHWH la metterà nella mano del re"» (22,15). Michea dà la stessa risposta dei quattrocento profeti, non rompe l’unanimità. Un secondo colpo di scena: Acab, invece di esultare di fronte a quella che sarà stata forse la prima profezia di "bene" prodotta da Michea, esclama: «Quante volte ti devo scongiurare di non dirmi se non la verità nel nome di YHWH?» (22,16). Una domanda bizzarra e importante. Acab mostra una sua strana onestà. Intuisce che quella parola di Michea non è vera, anche se gli farebbe comodo. Ci sono dei potenti che anche se (come vedremo) non ascoltano i profeti veri, sanno riconoscere quando dicono la verità. Molti capi hanno un particolare fiuto o "carisma" di discernimento, un dono che consente loro di fare carriera e che li rende affascinanti. Quel talento di discernimento degli spiriti consente loro, spesso, di capire velocemente le persone che hanno di fronte, di riconoscere anche i veri profeti dai falsi. Ma, ci dice la Bibbia, non basta il talento naturale per mettere in pratica il contenuto di quelle parole vere. Uno dei "peccati" più comuni di persone con grandi doti sta nel non seguire la verità che riconoscono – forse quei misteriosi "peccati contro lo spirito"’ di cui parla il Vangelo sono proprio questi. Al tempo stesso, quell’intuito naturale può, paradossalmente, aiutare il profeta vero.
Infatti, di fronte all’obiezione di Acab, Michea cambia risposta e dice la verità: «Egli disse: "Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore"» (22,17). È una chiara profezia di pace, l’opposto di quella dei quattrocento profeti. Non sappiamo perché Michea rispose con una bugia alla prima domanda di Acab – forse non credeva nell’ascolto di Acab, era sfiduciato, per ironia, per paura. Qui la Bibbia ci vuole suggerire qualcosa di portata molto più generale, molto importante anche nella vita delle organizzazioni e delle comunità. Non ci dice solo che anche un re cattivo può fare una domanda buona, né soltanto che anche un re infedele può aiutare un profeta a essere fedele alla sua verità. Ci dice di più. Ci suggerisce che se un responsabile, in momenti di crisi e di scelte difficili, vuole capire la scelta giusta da fare, deve essere molto diffidente verso il consenso unanime, e deve cercare di più. Se tutti sono d’accordo deve essere molto agitato e cercare un Michea nei dintorni. E poi se, per intuito, sa di avere di fronte un profeta vero non deve accontentarsi della prima risposta, soprattutto se assomiglia a quella data da tutti gli altri. Perché questa può essere una risposta falsa data da un profeta vero. Deve imparare a ripetere le domande, anche quando "detesta" la persona e la risposta. In queste cose repetita iuvant. Gesù dovette ripetere tre volte a Pietro se lo amava per farci avere una delle risposte più belle sull’amicizia. E se questa domanda doppia l’ha saputa fare un re cattivo, la possiamo fare anche noi.
A questo punto Michea continua la sua profezia, e ci regala un terzo colpo di scena: «Io ho visto YHWH seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno. YWHW domandò: "Chi ingannerà Acab perché salga contro Ramot di Gàlaad e vi perisca?". Chi rispose in un modo e chi in un altro. Si fece avanti uno spirito che, presentatosi a YHWH, disse: "Lo ingannerò io... Andrò e diventerò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti". Gli disse: "Lo ingannerai; certo riuscirai: va’ e fa’ così". Ecco, dunque, YHWH ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti questi tuoi profeti"» (22,19-23). Michea svela al re qualcosa di sorprendente, che ricorda la scommessa tra Dio e il "satan" nel prologo del libro di Giobbe. Quei quattrocento profeti, dunque, non sono falsi profeti: sono solo ingannati, e a ingannarli è stato uno degli "spiriti" di Dio. Stupendo! È la prima volta che nella Bibbia troviamo dei profeti ingannati da Dio stesso. Il Dio biblico è complicato. C’è uno spirito della sua corte che gli chiede il permesso di ingannare tutti i quattrocento profeti. In quei testi arcaici dentro il Dio vero abitavano anche spiriti cattivi e ingannatori, YHWH era più grande dei soli suoi spiriti buoni e onesti - che combatteranno Giacobbe in un guado notturno, che cercheranno di far morire Mosè mentre scendeva dal Sinai, che inchioderanno un Figlio in croce ("mio Dio mio Dio, perché …?"). Il Dio biblico induce in tentazione, eccome. Questo episodio continua a svelarci nuovi brani della grammatica della profezia. Non ci sono solo due categorie di profeti: veri e falsi. Ci sono falsi profeti che sanno di essere falsi e dicono cose false; ce ne sono alcuni veri che dicono solo cose vere. Lo sapevamo. Ma ora scopriamo che ci sono anche profeti veri che dicono intenzionalmente cose false (il primo Michea), e altri veri che dicono in buona fede bugie perché ingannati, addirittura, da Dio. Quanto è difficile riconoscere i profeti?
Acab riconobbe un profeta vero, ci dialogò, lo aiutò a essere onesto, ma alla fine non lo ascoltò: «Il re d’Israele marciò, insieme con Giosafat, re di Giuda, contro Ramot di Gàlaad» (22,29). Sapeva che la parola di Michea era vera, sapeva che Dio aveva stabilito che quella guerra sarebbe stata persa. Ma nonostante questo, Acab partì. Neanche la visione del cielo aperto convertì Acab. È misteriosa questa disobbedienza di Acab, che è tremenda perché ci ricorda troppo da vicino molte delle nostre. Sappiamo, perché una parola vera ce lo dice, che quell’azione che stiamo iniziando non è quella che dovremmo fare. Ma noi prendiamo la strada sbagliata sapendo che è la strada sbagliata. Sappiamo che dovremmo restare a casa, e invece partiamo. Finiamo a pascolare i porci, e non ci alziamo per tornare a casa. Anche Acab morì in battaglia (22,35). Ma, nonostante il suo fallimento, resta il valore di quella domanda doppia – la Bibbia è grande anche perché sa darci delle parole di vita incastonate dentro parole di morte; prima di morire, Acab con quella domanda tenace ha scritto una riga di luce nel suo testamento, ci ha lasciato un brano di verità in un mare di menzogna (e se fosse una sola riga vera scritta nella nostra vita a salvarci?).
Quella parola vera costò a Michea lo schiaffo di un suo "collega", Sedecia, uno dei quattrocento, e poi il carcere (22,24-27). Come Geremia, come tanti suoi fratelli di ieri, di oggi, di sempre. Come Elia, ancora un solo profeta contro una moltitudine. E anche ora la parola vera vince, anche se Michea "muore". La Bibbia infatti lascia Michea in questo carcere, lo dimentica lì. Dopo questo dialogo esce di scena per sempre. Ma un redattore successivo ha voluto congedarlo mettendogli in bocca le stesse parole dette secoli dopo da un altro profeta Michea, l’ultimo dei profeti biblici. Anche noi lo vogliamo salutare con quelle stupende parole: «Popoli tutti, ascoltate!» (22,19). Ascoltiamo tutti Michea, non dimentichiamo i tanti profeti veri schiaffeggiati e incarcerati solo perché sono stati fedeli a una parola vera e scomoda.
Translation - English Even a single ray of light
Prophecy is history / 16 - A second question sometimes leads to the right and unheard response
By Luigino Bruni
Published in Avvenire 22/09/2019
«The name of Elijah as an angel is Sandalphon, one of the greatest and most terrible ones in the group, with the task of weaving crowns with prayers for the Lord, and offering sacrifices to the invisible sanctuary, seeing as the Temple only appeared to be destroyed, but actually still continues to exist.»
Louis Ginzberg, The legends of the Jews, VI
The distinction between true and false prophecy runs throughout the Bible. This story adds new elements to the understanding of the prophets and their function, in the past and today.
Biblical prophecy, although unique, offers us a paradigm for better understanding some decisive phenomena in our societies and communities. Forms, ways, words change, but still today there are false prophets, and they are legions; true prophets who in good faith say nonsense, other honest ones who often say true words but not always. And above all there are powerful people who, while recognizing the true words of the prophets, do not listen to them. And they die. "Three years passed without war between Aram and Israel. In the third year, Jehoshaphat, king of Judah, descended from the king of Israel. Now the king of Israel ... said to Jehoshaphat:
La profezia biblica, sebbene unica, ci offre un paradigma per comprendere meglio alcuni fenomeni decisivi nelle nostre società e comunità. Cambiano le forme, i modi, le parole, ma ancora oggi ci sono profeti falsi, e sono legioni; profeti veri che in buona fede dicono sciocchezze, altri onesti che dicono spesso parole vere ma non sempre. E soprattutto ci sono potenti che pur riconoscendo le parole vere dei profeti non le ascoltano. E muoiono. «Trascorsero tre anni senza guerra fra Aram e Israele. Nel terzo anno Giosafat, re di Giuda, scese dal re d’Israele. Ora il re d’Israele... disse a Giosafat: "Verresti con me a combattere per Ramot di Gàlaad?". Giosafat rispose al re d’Israele: "Conta su di me come su te stesso"» (1 Re 22,1-4). Dopo la parentesi (meravigliosa) della vigna di Nabot, eccoci di nuovo nel contesto bellico aperto nel capitolo 20. Giosafat, re di Giuda, si reca in visita politica nel Nord. Acab gli propone di affiancarlo in una guerra di riconquista di territori occupati dagli aramei (Ramot di Gàlaad). Giosafat accetta ma chiede ad Acab di consultare prima i profeti (22,5). Consultare il proprio Dio prima di intraprendere un’impresa militare era molto comune nel mondo antico. Israele si trova ancora in una zona di confine tra lo sciamanesimo arcaico e il profetismo più maturo dei secoli successivi: «Il re d’Israele radunò i profeti, quattrocento persone, e domandò loro: "Devo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?". Risposero: "Attacca; il Signore la metterà in mano al re"» (22,6).
Quattrocento profeti di YHWH. Un numero notevole, che ricorda quelli di Baal (450) sgozzati da Elia sul monte Carmelo. Nella Bibbia i re e il potere non hanno un rapporto facile con i profeti. Ne hanno bisogno, ma hanno paura dei profeti veri perché liberi e imprevedibili. Il responso dei profeti è interamente dalla parte della guerra: 100% di favorevoli. Ma l’umanesimo biblico non ama l’unanimità. L’assenza di contraddittorio è un brutto segnale. Perché Dio parla nella diversità e nella sinfonia delle voci. La monotonia di questi accordi indica quasi sempre un imbroglio. Questa unanimità insospettisce anche Giosafat, evidentemente più esperto di vita e di Dio, e chiede un’altra prova: «Giosafat disse: "Non c’è qui ancora un profeta di YHWH da consultare?"» (22,7). Acab rispose a Giosafat: «C’è ancora un uomo… ma io lo detesto perché non mi profetizza il bene, ma il male: è Michea, figlio di Imla» (22,8). Acab odia Michea. I re detestano i profeti di sventura (della loro), anche quando sanno che sono profeti veri e onesti. Qui troviamo un’eco di Geremia, che si troverà a condividere la stessa sorte di Michea. Giosafat riesce a ottenere che Michea venga chiamato a corte. Interessante è il dialogo tra l’eunuco e Michea: «Il messaggero, che era andato a chiamare Michea, gli disse: "...la tua parola sia come quella degli altri: preannuncia il successo!". Michea rispose: "Per la vita di YHWH, annuncerò quanto YHWH mi dirà"» (22,13-14). Come molti collaboratori ruffiani, al funzionario non interessa la verità vuole solo assecondare il suo capo. Una scena molto comune, che nel racconto serve a rendere esplicito che Michea è un profeta vero.
Ma ecco il primo colpo di scena: Michea, la cui fama di profeta di sventura ci è nota, ci spiazza: «Si presentò al re, che gli domandò: "Michea, dobbiamo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o rinunciare?". Gli rispose: "Attaccala e avrai successo; YHWH la metterà nella mano del re"» (22,15). Michea dà la stessa risposta dei quattrocento profeti, non rompe l’unanimità. Un secondo colpo di scena: Acab, invece di esultare di fronte a quella che sarà stata forse la prima profezia di "bene" prodotta da Michea, esclama: «Quante volte ti devo scongiurare di non dirmi se non la verità nel nome di YHWH?» (22,16). Una domanda bizzarra e importante. Acab mostra una sua strana onestà. Intuisce che quella parola di Michea non è vera, anche se gli farebbe comodo. Ci sono dei potenti che anche se (come vedremo) non ascoltano i profeti veri, sanno riconoscere quando dicono la verità. Molti capi hanno un particolare fiuto o "carisma" di discernimento, un dono che consente loro di fare carriera e che li rende affascinanti. Quel talento di discernimento degli spiriti consente loro, spesso, di capire velocemente le persone che hanno di fronte, di riconoscere anche i veri profeti dai falsi. Ma, ci dice la Bibbia, non basta il talento naturale per mettere in pratica il contenuto di quelle parole vere. Uno dei "peccati" più comuni di persone con grandi doti sta nel non seguire la verità che riconoscono – forse quei misteriosi "peccati contro lo spirito"’ di cui parla il Vangelo sono proprio questi. Al tempo stesso, quell’intuito naturale può, paradossalmente, aiutare il profeta vero.
Infatti, di fronte all’obiezione di Acab, Michea cambia risposta e dice la verità: «Egli disse: "Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore"» (22,17). È una chiara profezia di pace, l’opposto di quella dei quattrocento profeti. Non sappiamo perché Michea rispose con una bugia alla prima domanda di Acab – forse non credeva nell’ascolto di Acab, era sfiduciato, per ironia, per paura. Qui la Bibbia ci vuole suggerire qualcosa di portata molto più generale, molto importante anche nella vita delle organizzazioni e delle comunità. Non ci dice solo che anche un re cattivo può fare una domanda buona, né soltanto che anche un re infedele può aiutare un profeta a essere fedele alla sua verità. Ci dice di più. Ci suggerisce che se un responsabile, in momenti di crisi e di scelte difficili, vuole capire la scelta giusta da fare, deve essere molto diffidente verso il consenso unanime, e deve cercare di più. Se tutti sono d’accordo deve essere molto agitato e cercare un Michea nei dintorni. E poi se, per intuito, sa di avere di fronte un profeta vero non deve accontentarsi della prima risposta, soprattutto se assomiglia a quella data da tutti gli altri. Perché questa può essere una risposta falsa data da un profeta vero. Deve imparare a ripetere le domande, anche quando "detesta" la persona e la risposta. In queste cose repetita iuvant. Gesù dovette ripetere tre volte a Pietro se lo amava per farci avere una delle risposte più belle sull’amicizia. E se questa domanda doppia l’ha saputa fare un re cattivo, la possiamo fare anche noi.
A questo punto Michea continua la sua profezia, e ci regala un terzo colpo di scena: «Io ho visto YHWH seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno. YWHW domandò: "Chi ingannerà Acab perché salga contro Ramot di Gàlaad e vi perisca?". Chi rispose in un modo e chi in un altro. Si fece avanti uno spirito che, presentatosi a YHWH, disse: "Lo ingannerò io... Andrò e diventerò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti". Gli disse: "Lo ingannerai; certo riuscirai: va’ e fa’ così". Ecco, dunque, YHWH ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti questi tuoi profeti"» (22,19-23). Michea svela al re qualcosa di sorprendente, che ricorda la scommessa tra Dio e il "satan" nel prologo del libro di Giobbe. Quei quattrocento profeti, dunque, non sono falsi profeti: sono solo ingannati, e a ingannarli è stato uno degli "spiriti" di Dio. Stupendo! È la prima volta che nella Bibbia troviamo dei profeti ingannati da Dio stesso. Il Dio biblico è complicato. C’è uno spirito della sua corte che gli chiede il permesso di ingannare tutti i quattrocento profeti. In quei testi arcaici dentro il Dio vero abitavano anche spiriti cattivi e ingannatori, YHWH era più grande dei soli suoi spiriti buoni e onesti - che combatteranno Giacobbe in un guado notturno, che cercheranno di far morire Mosè mentre scendeva dal Sinai, che inchioderanno un Figlio in croce ("mio Dio mio Dio, perché …?"). Il Dio biblico induce in tentazione, eccome. Questo episodio continua a svelarci nuovi brani della grammatica della profezia. Non ci sono solo due categorie di profeti: veri e falsi. Ci sono falsi profeti che sanno di essere falsi e dicono cose false; ce ne sono alcuni veri che dicono solo cose vere. Lo sapevamo. Ma ora scopriamo che ci sono anche profeti veri che dicono intenzionalmente cose false (il primo Michea), e altri veri che dicono in buona fede bugie perché ingannati, addirittura, da Dio. Quanto è difficile riconoscere i profeti?
Acab riconobbe un profeta vero, ci dialogò, lo aiutò a essere onesto, ma alla fine non lo ascoltò: «Il re d’Israele marciò, insieme con Giosafat, re di Giuda, contro Ramot di Gàlaad» (22,29). Sapeva che la parola di Michea era vera, sapeva che Dio aveva stabilito che quella guerra sarebbe stata persa. Ma nonostante questo, Acab partì. Neanche la visione del cielo aperto convertì Acab. È misteriosa questa disobbedienza di Acab, che è tremenda perché ci ricorda troppo da vicino molte delle nostre. Sappiamo, perché una parola vera ce lo dice, che quell’azione che stiamo iniziando non è quella che dovremmo fare. Ma noi prendiamo la strada sbagliata sapendo che è la strada sbagliata. Sappiamo che dovremmo restare a casa, e invece partiamo. Finiamo a pascolare i porci, e non ci alziamo per tornare a casa. Anche Acab morì in battaglia (22,35). Ma, nonostante il suo fallimento, resta il valore di quella domanda doppia – la Bibbia è grande anche perché sa darci delle parole di vita incastonate dentro parole di morte; prima di morire, Acab con quella domanda tenace ha scritto una riga di luce nel suo testamento, ci ha lasciato un brano di verità in un mare di menzogna (e se fosse una sola riga vera scritta nella nostra vita a salvarci?).
Quella parola vera costò a Michea lo schiaffo di un suo "collega", Sedecia, uno dei quattrocento, e poi il carcere (22,24-27). Come Geremia, come tanti suoi fratelli di ieri, di oggi, di sempre. Come Elia, ancora un solo profeta contro una moltitudine. E anche ora la parola vera vince, anche se Michea "muore". La Bibbia infatti lascia Michea in questo carcere, lo dimentica lì. Dopo questo dialogo esce di scena per sempre. Ma un redattore successivo ha voluto congedarlo mettendogli in bocca le stesse parole dette secoli dopo da un altro profeta Michea, l’ultimo dei profeti biblici. Anche noi lo vogliamo salutare con quelle stupende parole: «Popoli tutti, ascoltate!» (22,19). Ascoltiamo tutti Michea, non dimentichiamo i tanti profeti veri schiaffeggiati e incarcerati solo perché sono stati fedeli a una parola vera e scomoda.
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I'm a multilingual translator with a Bachelor's degree in International Economy and over 10 years of experience working as an administrative / personal assistant and translator/ interpreter in various fields such as pharmaceuticals, the leather industry and fashion.
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