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Mandarin Chinese to Italian: Addio, farfalla General field: Art/Literary
Source text - Mandarin Chinese 海芝穿着一身红裙,被空气挤压成一支细长的箭,晦暗中掷向地面,在亿分之刹那,她整个人仿佛消失,下跌的只是她的裙子。她一直在我前面十米的地方,不远不近,头朝下,很快会抵达终点,而我随后即至。只有在这个时刻,我发现黑暗看来宽阔无边,其实只是一道扁而深的小门,穿过它的时侯鼓宕的风从地表上翻,抗着人,接着人,把坠落的几秒钟拉成一个长长的隧道,物理定律失去了作用,时间如此扭曲而漫长,长得我无法看见隧道那头的亮光。余量太大,可供挥霍,足够我在一些细枝末节里停驻,张望良久。
Haizhi indossava una gonna rossa, che pressata dal vento era diventata snella e sottile come una freccia. Era buttata lì, sul pavimento, nell’oscurità. In quell’attimo sembrò che Haizhi fosse sparita senza lasciare traccia, che ciò che era precipitato a terra fosse solo la gonna. Haizhi era sempre rimasta a 10 metri di fronte a me, né vicino né lontano, a testa bassa.
Presto sarà tutto finito, ti raggiungerò subito.
Solo in quel momento notai che l’oscurità sembrava non avere fine. Vedevo solo una piatta e profonda porticina: dietro il vento si agitava e soffiava con forza.
Eravamo unite, la sostenevo. I secondi della caduta si dilatarono in un lungo tunnel. Le leggi della fisica persero il loro valore, il tempo era distorto. Il tunnel era talmente lungo e buio che era impossibile vederne la luce alla fine. Il margine di tempo era troppo ampio, era una possibilità troppo allettante per sprecarla. C’era abbastanza tempo per soffermarsi su tutti i minuscoli dettagli non essenziali e restare a guardare.
Un aquilone di pelle umana, pensai.
Quando eravamo bambine, io e Haizhi giocavamo nel vecchio magazzino della fabbrica di tela cerata, dove erano disposti numerosi scaffali pieni di campioni da esposizione. Gli scaffali contenevano molti cassetti, prevalentemente vuoti. Alcuni, però, celavano cose davvero strane, come un topolino appena nato, perle colorate in quantità, caramelle alla frutta scadute… Una volta tirammo fuori un rotolo di pelle molto sottile, che a causa dell’umidità era ricoperto da minuscole macchioline blu: sembrava che luccicasse. Dopo un soffio e una scrollata notammo un colore marrone scuro di fondo. Lo srotolammo a terra, sul bordo seguimmo il contorno del collo e dei quattro arti: sembrava un piccolo animale, la pelle sembrava quella di una pecora o un agnello. Gli arti, però, erano lunghi e sottili. Su tutta la superficie erano incise scritte che non conoscevamo. Il padre di Haizhi ci vide con la coda dell’occhio, si avvicinò e disse: “Ah, quella è una pelle umana che acquistai in Tibet da giovane.” Appena finì la frase sussultammo e scattammo come molle. Distese delicatamente la pelle umana, la appoggiò su un grande tavolo e fece pressione sui quattro angoli con una pressa di rame. Così, la sagoma di un uomo si fece più evidente. Quando la ripiegò provai dolore, sembrava un neonato avvizzito e imbalsamato.
“Acquistai questo rotolo al mercato di Lhasa, quando mi trovavo in Tibet per lavoro. La bancarella vendeva pile di coralli, cera d’api e tufo. Ci passai di fianco solo per dare un’occhiata, ma poi il venditore aprì un fodero da cui lentamente estrasse la pelle. Mi disse che si trattava di un rotolo di pelle umana risalente a cent’anni fa. Rimasi sbalordito: non so perché, ma in qualche modo lo trovai affascinante. Lo acquistai per 100 renminbi, lo portai a casa e lo misi qui senza pensarci; avrei potuto facilmente dimenticarmene.”
“Ho sempre pensato di farci un aquilone” disse il papà di Haizhi.
Qualche tempo dopo, io e Haizhi andammo al mercato e notammo una persona che vendeva rane. Con un piccolo coltello tagliò la pancia di una rana, ne rimosse le interiora e la schiacciò con forza, esercitando pressione con i palmi delle mani: così il corpo della rana perse aderenza con la sua pelle. La agitò ripetutamente e all’improvviso la scagliò a terra: la pelle, colpendo il suolo, emise uno schiocco. Gli restò in mano una rana scuoiata, tutta bianca; si vedevano chiaramente le falangi e sembrava si dimenasse senza sosta, come fosse ancora viva. Il terreno era ricoperto di pelle e sangue, emanava un odore salmastro. Mi corse un brivido lungo la schiena, Haizhi rimase imbambolata. Pensammo alla stessa cosa: il rotolo di pelle umana. Avevamo entrambe la pelle d’oca, non potemmo fare altro che tapparci il naso e andare via di corsa. Essere scorticati doveva essere molto doloroso.
Il papà di Haizhi usò la pelle umana per costruire un aquilone come aveva detto. Il telaio si sosteneva grazie ad un sottile filo di ferro e i rami di bambù fungevano da ossatura. Collegò tutto a un mulinello e dipinse un grande occhio rosso al centro dell’aquilone. La pelle umana tornò in vita, scrutandoci con quell’occhio deforme. Il padre di Haizhi appese l’aquilone nel magazzino. Io e Haizhi non andammo mai più a giocare lì, quell’occhio non smetteva di fissarci neanche per un secondo. Entrambe vedemmo quell’occhio muoversi: la pupilla per un attimo si accese e ruotò. Raccontammo questa cosa agli adulti ma loro non fecero altro che ridere, convinti che si trattasse solo di una fantasia da bambini: un occhio disegnato come può muoversi?
L’aquilone pesava molto, almeno due chili e mezzo; ci voleva un gran vento perché volasse. Il papà di Haizhi aspettava il momento giusto, disse che ci avrebbe portato in un posto in cui far volare l’aquilone di pelle umana. Ma a giugno non ci furono né vento né pioggia, a luglio l’aria era ferma come una pozza d’acqua stagnante e ad agosto, ogni tanto, si alzava solo una lieve brezza. L’aquilone rimase appeso per tre mesi, immobile. Io e Haizhi ce ne eravamo scordate in fretta, ma a settembre, un giorno, le cicale smisero improvvisamente di cantare e si alzò un gran vento. Non pioveva ancora, ma il vento era così forte da poter sollevare qualunque cosa. Il papà di Haizhi si precipitò a casa, trascinò me e Haizhi via dal divano e ci prese in braccio, una col sinistro e una col destro; si affrettò verso il magazzino e sganciò l’aquilone. Io e Haizhi lo seguimmo a tutta velocità fino al lungofiume: dovevamo arrivare prima della pioggia e far volare l’aquilone alto nel cielo.
Le nuvole nere e cariche di pioggia tuonavano a pochi metri dalla nostra testa.
Io e Haizhi sollevammo l’aquilone mentre il papà di Haizhi teneva il mulinello a venti metri da noi.
Gridò: “Mollate!” La sua voce, inghiottita dal vento, si sentì a malapena.
Lasciammo la presa e l’aquilone, spinto dal vento, spiccò il volo: volteggiò nell’aria per un po’ e si piantò a terra. Corremmo a raccoglierlo, cercammo di alzarlo più in alto possibile, controvento, e lo liberammo. L’aquilone cadde a terra un’altra volta, lo sollevammo ancora finché, finalmente, fu stabile in aria. Il padre di Haizhi, tenendo fermamente il mulinello, allentò a poco a poco il filo. Io e Haizhi guardammo in alto e osservammo l’aquilone piegarsi nel cielo. Assicurato al mulinello, schizzò in aria tremando come un missile; il suo occhio rosso non smetteva di chiudersi e riaprirsi, sempre più piccolo, rapito dalle nuvole. Il filo lungo cento metri stava per esaurirsi: il papà di Haizhi, trascinato dalla forza del vento, avanzava a piccoli passi; stava per cedere, il filo dell’aquilone era tesissimo. Haizhi d’un tratto urlò, e al suono della sua voce il filo si spezzò: l’aquilone, libero dal filo, di colpo scattò indietro, fu risucchiato dal vento e volò via. Un attimo dopo precipitò nelle torbide acque del fiume, fu sballottato qua e là e scomparve.
Non lontano da noi, il papà di Haizhi, tenendo ancora stretto il mulinello dell’aquilone, volse lo sguardo verso le nuvole nere, si accovacciò per terra con le guance ricoperte di sabbia (灰翳?), dalla pianta del piede (脚底板) [dalla posizione accovacciata? Dato che si sta sulle piante dei piedi] si spostò in un attimo e sputò lontano. Teneva la testa affossata tra le ginocchia, che formavano una specie di nido. Aveva trent’anni ma ne dimostrava poco più di venti, pareva ancora un giovane sbarbato. Indossava una vecchia maglia nera e i suoi capelli erano mossi e arruffati dal vento, come erba selvatica. Io e Haizhi avevamo solo sette anni, eravamo piccole. Sapevamo a malapena cosa fosse la tristezza: si manifesta sul viso, è un’espressione facciale; le labbra si piegano verso il basso, gli occhi sono vacui e le sopracciglia si aggrottano.
Non osammo né avvicinarci al padre di Haizhi né andarcene. A parte noi tre, nei paraggi non c’era anima viva.
Era uno di quegli uomini che rimangono impressi nella memoria. Ricordo ancora chiaramente il suo sorriso: gli angoli della bocca scavavano profondamente nelle guance, formando due fossette di forma ellittica. Aveva un sorriso molto aperto. Pensavo che il papà di Haizhi non potesse mai essere triste, era sempre sorridente: traboccava di gioia dagli occhi fino alla punta delle sopracciglia. Possedeva capacità invidiabili: sapeva suonare la chitarra, cantare e ballare la break-dance. Una volta, mentre camminavamo, d’un tratto irrigidì mani e piedi, si avvicinò a noi muovendosi a scatti, con la testa piegata e la bocca spalancata: si era trasformato in una marionetta. Io e Haizhi ci spaventammo così tanto da non riuscire più a muoverci. Tese le braccia e ci afferrò bruscamente per la vita, premendoci le costole e facendoci il solletico. Poi corse a un minimarket a comprarci uno spuntino. Spesso cantava a squarciagola nelle piccole docce comuni: si schiariva la gola e il fragore della sua voce rimbombava tra le pareti di ceramica bianca. Il suo petto magro sembrava nascondere una grande cassa di risonanza: non appena iniziava a cantare la sua voce era come amplificata, il lungo e poderoso suono della sua voce penetrava le orecchie e le faceva vibrare. Intonava canzoni cantonesi di cui nessuno comprendeva le parole, sembrava cinguettasse. Tutti dicevano che il suo canto assomigliava a quello degli uccelli, era strano ma molto orecchiabile, meglio di ciò che si sente in televisione; peccato che non fosse un cantante. Era costantemente accompagnato da un’aura di vitalità ed era sempre tirato a lucido come le sue scarpe. Ogni tanto dava l’impressione di essere un po’ fuori luogo.
Gli altri erano così piatti e noiosi che sembravano fare la muffa, quasi si confondevano con il grigio cemento dei muri della fabbrica di tela cerata: come mio padre, il vicedirettore. Era di appena due anni più grande del papà di Haizhi ma era tutta un’altra persona.
Dopo la chiusura della fabbrica la vita non fu facile. Durante il giorno mio papà guardava la televisione e fumava. Si faceva scorrere addosso il tempo fino all’ora di cena e poi, dopo mangiato, portava con sé una torcia e camminava lentamente verso il parco, dove giocava a scacchi cinesi. Rientrava alle nove, si lavava i denti e il viso e andava a dormire senza proferire parola. A volte litigava con mia madre, giusto per variare un po’: lei lo accusava di uscire di notte, di avere un’altra donna da mantenere. Mio papà mostrava le tasche vuote, all’interno non c’era neanche uno spicciolo. “Spiegami come diavolo potrei mantenere un’altra donna” diceva. “E io che ne so, magari hai trovato un modo” rispondeva lei. “Ma che magari, non c’è nessun modo” ribatteva lui. Queste discussioni portavano sempre ad un litigio: mio padre afferrava mia madre per i capelli e tirava verso l’alto, lei urlava e piangeva, agitando debolmente i pugni. Lo colpiva alla bocca dello stomaco senza fargli male, così come lui non le strappava via lo scalpo. Era una lotta raffinata, ma il pianto di mia mamma era come un terremoto, si sentiva fin sopra il cielo (震天动地). La gente, preoccupata, interveniva per separarli. Mamma si asciugava le lacrime, papà restava muto. Il giorno seguente era come se non fosse successo niente: mio padre tornava a giocare a scacchi cinesi, mentre mia madre si recava al Palazzo Culturale dei Lavoratori , dove frequentava un corso di pittura.
Questi litigi capitavano a cadenza mensile. Contenuto, forma, non cambiava mai niente. Era come se la casa accumulasse sempre più gas: prima o poi doveva verificarsi un’esplosione.
Quando i miei genitori litigavano mi rifugiavo sempre a casa di Haizhi. Suo papà mi consolava, “Quando la fabbrica riaprirà smetteranno di bisticciare” diceva.
La fabbrica non riaprì mai, era ovvio. Dopo un anno, la seconda più grande fabbrica di tela cerata della nazione fallì e chiuse i battenti. In realtà, nella fabbrica l’atmosfera era spenta da svariati anni. La fabbrica non morì all’improvviso, fu come quando una grande nave si arena: affonda lentamente. Sembrava fossimo tutti affetti da una malattia cronica, inesorabile: perdemmo le speranze giorno dopo giorno, restammo a lungo in attesa e non ci fu neanche concesso di esalare l’ultimo respiro.
Durante l’estate non piovve per due o tre settimane consecutive: il sole sorgeva e calava indisturbato, cuoceva il cemento fino a sbiancarlo, l’erba era verdissima. [Forse per contrasto; l’erba sembrava verdissima?] Era una terra devastata che non può più rifiorire. Non c’era più nessuno.
Mio padre disse a mia madre che alcune persone avevano rubato dei campioni di tela dalla fabbrica per rivenderli. Sapeva di chi si trattasse, ma nessuno si prese la responsabilità di intervenire; anche lui fece finta di niente. All’inizio disprezzò i ladri, ma poiché ne avevano ricavato un profitto alla fine si unì a loro. Di notte montavano su un furgoncino a tre ruote e aprivano il magazzino. Alcuni di loro portavano via i rotoli di tela cerata che, essendo impermeabile, è particolarmente pesante. Il rumore che facevano, ansimando dallo sforzo, si sentiva anche da lontano. La fabbrica era fallita davvero, mio papà ne aveva approfittato e si sentiva sollevato. Insieme a pochi altri abbassò i prezzi degli ultimi rotoli di tela cerata, trovò dei buoni acquirenti e ci guadagnò. Tutti volevano fare la stessa cosa, ma quelli che potevano riuscirci erano pochi, e noi facemmo fortuna in questo modo.
Quando iniziai le scuole medie la mia famiglia era già abbiente, così ricca che mio padre manteneva un’altra donna per davvero. I miei genitori avevano smesso di litigare, l’odio reciproco si era trasformato in totale indifferenza.
Dopo la chiusura della fabbrica ci fu un incendio nel magazzino. Io e Haizhi stavamo guardando i cartoni animati a casa sua. Le strinsi forte le mani, che erano soffici come la lana, morbide e profumate. Il volume della televisione sembrava sempre più alto, qualcuno gridò “Al fuoco!” e il bagliore dorato delle fiamme inondò la stanza. Haizhi ed io corremmo verso il balcone: a una decina di metri di distanza, una lingua di fuoco si attorcigliò nel cielo e si agitò nell’aria, fece un paio di guizzi e si affievolì – il cielo fu coperto dal fumo nero. Nella notte, sembrava un velo di seta nera bucato da una bruciatura.
Urlammo felici come a capodanno, scendemmo le scale di corsa e seguimmo gli adulti fino allo spazio aperto davanti al magazzino: gli uomini si davano un gran daffare per domare il fuoco, le cui fiamme roventi bruciavano loro il viso. Ci tenemmo strette per mano e ci coprimmo il naso mentre guardavamo gli adulti gettare acqua nelle finestre, una secchiata dopo l’altra. Le fiamme si estinsero, emisero del fumo nero, di colpo rinvigorirono, danzarono di nuovo, schizzarono fuori dalla finestra e si scagliarono sulla folla. Il legno scricchiolò; il fuoco si stava spostando verso il magazzino di fianco. Un uomo si fermò all’improvviso, lasciò cadere a terra i secchi d’acqua e, come attratto da qualcosa, piano piano si mosse verso l’entrata del magazzino. Passo dopo passo, alla fine fu accolto dalle fiamme dorate. I suoi capelli mossi si incendiarono e si dissolsero nel fuoco: quell’uomo era stato completamente inghiottito dalle fiamme, erano rimasti solo i suoi vestiti. Era come se fosse stato sbranato da una gigantesca bestia, poco alla volta. Rimasero tutti imbambolati. Aspettammo che qualcuno andasse a salvarlo, ma era troppo tardi.
Era il papà di Haizhi.
Haizhi si divincolò dalla mia presa di scatto, in preda alla disperazione si lanciò verso il fuoco e in lacrime gridò: “Papà! Papà!” La afferrai forte per il braccio e le impedii di gettarsi nelle fiamme.
Dopo chissà quanto tempo arrivarono i pompieri, muniti di una pompa bianca che spruzzava un enorme getto d’acqua. In pochi istanti le fiamme si indebolirono fino ad estinguersi. L’aria era umida, odorava di muschio in una giornata piovosa. L’oro delle fiamme sfumò e tornò l’oscurità come prima, anzi, ancora di più: l’angolo di cielo bruciato era stato ricucito.
Arrivò mia madre. Per separarmi da Haizhi mi staccò le dita dal suo braccio, una per una: la mia morsa era troppo stretta, come se avessi voluto penetrarle nella carne. Strinse a sé Haizhi, in lacrime e spaesata; le accarezzò affettuosamente la schiena finché non smise di piangere. Quella notte io e Haizhi dormimmo insieme nel mio lettino, una attaccata all’altra. Stranamente si addormentò subito, nel sonno il suo respiro era leggero come quello di un gatto. Continuai a rigirarmi nel letto, ascoltando i suoni provenienti dall’esterno: c’erano degli adulti riuniti nel salotto, le loro voci erano soffocate, non capii una parola. Se ne andarono molto tardi, mia mamma aprì la porta della mia stanza senza far rumore e controllò che dormissimo. Finsi di dormire e la guardai con la coda dell’occhio. Accarezzò il viso di Haizhi e fece lo stesso con me. “Chi poteva aspettarselo? Povera Haizhi. Che disgrazia.”
D’un tratto mi ricordai dell’aquilone di pelle umana che apriva il suo grande occhio e volava lontano. Se non se ne fosse andato forse il papà di Haizhi non sarebbe entrato nel fuoco, forse non sarebbe morto. Fu la prima volta che vidi la malinconia nel suo sguardo.
Tutta questa storia doveva per forza essere partita da quell’aquilone. Ero consapevole che non potesse essere davvero così, ma questo strano pensiero continuava a rimbalzare nella mia testa.
Quando mi svegliai Haizhi non c’era già più. Mi buttai giù dal letto e corsi a casa sua. Una marea di signore circondavano il suo appartamento, era talmente affollato da non riuscire ad entrare e non si sentivano altro che singhiozzi. La mamma di Haizhi era affondata nel divano con lo sguardo perso, rivolto al soffitto; Haizhi era seduta sulle sue ginocchia. “Haizhi! Haizhi!” gridai davanti al portone. Lei rizzò le orecchie, si voltò, saltò giù dal divano, zigzagò tra dieci o più coppie di piedi e raggiunse la porta. Tirai fuori dalle tasche una dozzina di caramelle Wowo e gliele porsi, erano le sue preferite. Haizhi era piena di carie, così le infilò in tasca e con la gola serrata disse: “Dai, andiamo a vedere mio papà.”
La salma del papà di Haizhi era stata posta nel campo di pallacanestro della fabbrica. Per raggiungerlo era necessario attraversare un vecchio campo sportivo. Un passo pesante, uno leggero, tenni Haizhi per mano lungo tutto il tragitto; sentii un lieve tremore scorrerle tra le dita.
Le finestre del campo di pallacanestro erano molto in alto, ci mettemmo in punta di piedi e guardammo dentro: c’erano degli uomini accovacciati a fumare, parlavano senza dirsi niente. Dietro di loro c’erano delle paratie ricoperte da un tessuto bianco macchiato di sangue e carbone: il papà di Haizhi giaceva là dentro, lo sapevamo. Il canto delle cicale creava un’atmosfera gelida ma stranamente calma, e l’intensa luce del sole che filtrava dalle finestre inondava il campo di riflessi blu cenere.
Tenendo Haizhi per mano feci per entrare, ma lei si bloccò. Abbassò lo sguardo e disse: “Non voglio entrare a vedere, ho paura.” Restammo fuori al sole per un po’, mangiammo due caramelle ed entrammo nel campo di pallacanestro. Sentimmo lo sbattere delle ciabatte sul pavimento, gli adulti ci videro e si alzarono in piedi per mandarci via: “Che ci fate qui? Fuori, presto”.
Non li ascoltai e proseguii. Sbirciai dentro al telo, in punta di piedi: si vedeva soltanto una massa nera, indistinta. Il terrore che mi riempiva il cuore si attenuò un pochino: mi feci coraggio, tenni gli occhi ben aperti e osservai più attentamente. Quella massa nera e bruciata prese le sembianze di una persona: occhi, naso e bocca erano ancora visibili, ma la pelle bruciata aveva assunto un colore nero e giallastro, rivelando il rosso del tessuto muscolare sottostante; il suo aspetto era già deformato. Il papà di Haizhi era il cadavere che avevo di fronte, non riuscivo a capacitarmene, non avrei mai pensato di vederlo così.
“Ieri, all’alba, l’ho sentito cantare sul balcone; com’è possibile che oggi sia sdraiato lì, tutto nero?” pensai.
Haizhi si coprì gli occhi con una mano, ci volle tanto perché desse una rapida occhiata attraverso le dita; non capivo se riuscisse a vedere bene. Cacciò un urlo e corse fuori; la seguii e girovagammo per la fabbrica. Il fresco profumo della paulonia era intenso, ci attirò senza che ce ne accorgessimo. Metà dei fiori della pianta erano stati spazzati via dall’incendio, il terreno era ricoperto da campanule bianche e avvizzite. Le calpestammo e le schiacciammo tutte, una per una; speravamo che producessero un suono.
Il magazzino andato a fuoco si trovava di fianco alla paulonia. La lingua di fuoco aveva lasciato segni di bruciature molto evidenti, marchiando indelebilmente le pareti. Il pavimento era tappezzato di frammenti di vetro su cui la calda luce del sole risplendeva luminosissima. Al centro era rimasto un mucchio desolato di fredda cenere, che ad un primo sguardo sembrava un buco. L’aria era ancora pregna del pungente e acre odore di bruciato.
“Secondo te il mio papà ha sofferto quando è morto?” domandò Haizhi. Il suono della sua voce era molto delicato.
“Non saprei… è successo all’improvviso, sicuramente non avrà sofferto” risposi.
“Ma perché è andato là dentro? Io e la mamma non gli andavamo più bene?” chiese. Non riuscii a trovare una risposta.
“Mio padre dice che tuo papà fosse posseduto, si è gettato nelle fiamme senza volerlo. Era così allegro, non aveva motivo di farlo” dissi.
“È entrato di proposito, l’ho visto. All’inizio voleva spegnere il fuoco, poi ci è corso dentro da solo. Perché l’ha fatto?” Haizhi fece un lungo sospiro e il suo sguardo si spense. La presi per mano ma lei si divincolò: mi scivolò via come un pesce appena pescato. Feci per riafferrarla ma non ci riuscii.
Poco tempo dopo io e la mia famiglia ci trasferimmo lontano dalla fabbrica Stella Rossa, mentre la mamma di Haizhi si risposò con un amministratore dell’ufficio delle imposte. Anche loro lasciarono la città. Haizhi aveva un nuovo papà, nessuno menzionò più né l’incendio del magazzino né l’uomo che camminò nel fuoco senza motivo. Capii che la morte fa parte del corso naturale della vita, non serve soffermarcisi; è un’onda che si increspa e poi si ritira. Ma quell’incendio era un seme che si radicò per sempre nei nostri cuori. I semi germogliano, crescono e a volte sbocciano in fiori bellissimi, a volte in fiori appassiti.
Io e Haizhi frequentavamo ancora la stessa scuola e stavamo insieme tutti i giorni. Anche dopo essere tornata a casa le telefonavo, ma avevo la sensazione che non avesse abbastanza tempo da dedicarmi. La chiamavo alle otto e trenta di sera, puntuale; Haizhi rispondeva ma non aveva mai niente da raccontare, così riagganciavamo amareggiate. Evitavamo con meticolosa attenzione di parlare dell’incidente, ma non c’era molto di cui chiacchierare: la scuola era un disastro, la famiglia uno schifo. Haizhi aveva un nuovo fratellino, nato da sua mamma e dal suo nuovo papà: doveva essere accudito, e questo cambiamento la fece diventare un’altra persona. A parte me, nessuno la considerava più. Tutto perse di significato.
Crescemmo entrambe a una velocità impressionante, mani e piedi si affusolarono come piante di grano, il corpo maturò senza che ce ne rendessimo conto e i giorni si fecero sempre più corti. Desideravo ardentemente di poter indugiare un po’ più a lungo all’ombra del passato. Lo scorrere del tempo mi spaventava.
Haizhi mi superò in altezza e la carnagione bruna che aveva un tempo mutò, diventando bianca come la neve, cristallina, quasi trasparente. A volte, quando era illuminata dal sole, riuscivo a vedere distintamente muscoli, sangue e ossa sotto la pelle. Sembrava un fantasma tornato tra i vivi. La sua pelle chiarissima diventò il suo tratto distintivo: Haizhi divenne popolare ovunque. I ragazzi perdevano la testa per lei, ma noi eravamo diverse dagli altri, eravamo due ragazze così profondamente unite da essere considerate un tutt’uno. I nostri genitori e insegnanti ritenevano fossimo innamorate: noi non lo negavamo neanche, non sapevamo cosa fosse l’amore. Ci conoscevamo troppo bene, eravamo inseparabili. Avremmo desiderato vivere nello stesso corpo come un’unica entità. Così, forse, non ci sarebbe stata tutta questa agitazione: gli adulti cercavano in ogni modo di educarci, noi ci mostravamo accondiscendenti ma a scuola ci tenevamo mano nella mano e ci baciavamo davanti a tutti, non riuscivamo ad evitarlo. Avevano intenzione di espellerci ma, chissà perché, non lo fecero mai. Forse eravamo troppo noiose, a parte la cotta che avevamo l’una per l’altra e la scarsa diligenza nello studio, non ci comportammo mai male. Sì, in quel periodo eravamo molto ostinate, pensavamo fosse tutto così monotono. Tutto perdeva di significato.
Per fortuna Haizhi trovò un modo per ammazzare il tempo. Saliva sui tetti dei grattacieli, dove il vento soffia più forte; osservava l’ampio orizzonte della città cercandone i confini. Era la terra dei nostri sogni. Quando si cresce così in fretta si sogna sempre di volare. Dispiegare le braccia, sorvolare la città, rompere il muro del suono, guardare la gente dall’alto come minuscole formiche nere e le case come scatoline quadrate. Il sogno finiva sempre bruscamente: perdevamo la capacità di volare e precipitavamo a gran velocità, inevitabilmente. Ci svegliavamo un istante prima di sfracellarci al suolo.
Fu così che Haizhi si innamorò dei luoghi alti.
Dall’ingresso della scuola, svoltando a sinistra e camminando per quattrocento metri, è possibile entrare nel grattacielo più alto della città, il “palazzo dell’unione”. Conta diciassette piani ed è munito di ascensore, ma Haizhi voleva salire a piedi ogni volta. Le luci delle scale erano tutte spente, dovevano essere riparate da anni: era buio, freddo e squallido, soltanto una luce fioca scendeva dal punto più alto del grattacielo. Scalino dopo scalino, piano dopo piano, sembrava di salire all’infinito. In cima c’era una porta di ferro semi-aperta che faceva filtrare appena la luce dall’esterno; come se quella porta celasse un altro mondo. Haizhi spalancava sempre quella porta con aria risoluta e io la seguivo.
Guardare il tramonto dal tetto del grattacielo era uno spettacolo mozzafiato. Ci sedevamo sul bordo con le gambe a penzoloni, a centinaia di metri dal suolo, attente a non guardare giù. Bastava un attimo che iniziasse a girare tutto, sempre più veloce: percepivo un immenso vuoto d’aria, sentivo le gambe cedere e i crampi alla pancia. A volte sentivo una voce sussurrarmi nell’orecchio: “Buttati, buttati giù”. Il mio corpo pareva impaziente di schiantarsi sul cemento a tutta velocità, una piccola distrazione e sarei precipitata davvero. È stato già provato più volte, soffro molto di vertigini. Domandai a Haizhi se avesse paura di cadere. “Certo. È una paura piacevole” rispose lei. “Secondo te, se un uccello soffre di vertigini come fa a volare?” le chiesi ancora. Che domanda stupida.
“Non volerebbe, vivrebbe a terra” dissi.
“Sulla terra molti animali se lo mangerebbero, non vivrebbe a lungo.”
Non seppi come ribattere. “È un vero peccato. Chiuderebbe gli occhi, cos’altro potrebbe fare?” mi limitai a dire. Haizhi si lasciò scappare una risatina, i suoi occhi neri neri si illuminarono.
Per tre mesi salimmo in cima a tutti i grattacieli più alti della città. Spesso i tetti sono costruiti con poca cura, è così anche per i palazzi più nuovi. Inoltre, ci abitano poche persone, l’amministrazione è sciatta e sono teatro di affari loschi. Ci capitò di vedere un piccione in putrefazione, gatti che litigavano, il braccio di un uomo e un magnifico assortimento di teste di maiale appese ad essiccare. Una volta interrompemmo persino una coppia mentre faceva sesso; ci urlarono contro completamente nudi. Ogni volta che aprivamo la porta sui tetti ero lievemente a disagio: chissà cosa avremmo trovato. Di solito non c’era niente, non volava una mosca. Soltanto l’aria emessa dalle ventole faceva un ronzio quasi impercettibile, che accompagnava l’eco dei nostri passi. Dopo aver scalato tutti i grattacieli più alti non ci rimase altro che rivisitare in continuazione quelli che ci piacevano di più. Guardare sempre lo stesso panorama ci nauseò e tutto tornò ad essere noioso, finché non giunse la notizia di un nuovo grattacielo in costruzione: sentimmo di avere un nuovo scopo. Si diceva che il nuovo “grattacielo dell’elettricità” contasse ben trentadue piani e fosse alto più di ottanta metri, avrebbe preso il posto del palazzo dell’unione come edificio più alto della città.
Che coincidenza, il grattacielo della luce occupava il sito della vecchia fabbrica di tela cerata. Il giorno in cui il magazzino fu demolito proposi a Haizhi di andare a vedere: scavalcammo il cancello della scuola, raggiungemmo il tetto del palazzo dell’unione e ci sedemmo rivolte a sud. Il grigio capannone della fabbrica non trasmetteva niente; nascosto tra la giungla di grattacieli, era difficile da identificare. Alle tre del pomeriggio il boato di un’esplosione rimbombò puntuale, seguito da una raffica di rumori assordanti; la fabbrica sembrò come schiacciata da una gigantesca mano invisibile e una nuvola di cenere si alzò nel cielo. Magazzino, capannoni, edifici del personale, campo di pallacanestro; tutto si disintegrò in un istante e cessò di esistere, anche il tempo che io e Haizhi avevamo trascorso lì giunse al termine. I vecchi sogni non poterono più essere riesaminati (重温?), di colpo al mio cuore mancò un pezzo. Haizhi si coprì gli occhi e girò la testa dall’altra parte, nello stesso modo in cui si voltò quando vide il corpo di suo papà nel campo di pallacanestro. Era spaventata, tremava come una foglia. Aspettammo che la polvere si depositasse e scendemmo solo quando l’orizzonte si dipinse di ombre rossastre. Rientrate a casa, Haizhi mi chiese se volessi tornare a vedere il sito. Accettai.
L’autobus, per arrivare alla vecchia fabbrica, doveva fare il giro della città. Che strano, nonostante la fabbrica avesse chiuso i battenti anni prima, la fermata era ancora la stessa. Giunti a destinazione, il conducente esclamò: “Fabbrica Stella Rossa! I passeggeri che devono scendere sono pregati di prepararsi”. I passeggeri, assenti, credevano che la fabbrica ci fosse ancora. Sporgendosi a guardare/la testa/Guardando fuori dal finestrino, le piastrelle blu appese all’ingresso della fabbrica furono ancora visibili, [Fuori dal finestrino, si potevano ancora vedere le piastrelle blu appese all’ingresso della fabbrica?] ma un attimo dopo la porta blu si ruppe in mille pezzi. Non c’era più nessuna fabbrica di tela cerata, solo un piatto cumulo di macerie. Scavatrici e gru frantumarono mattoni e piastrelle, eliminarono completamente piante, edifici, macchinari; cancellarono tutto come delle enormi gomme.
Anche se erano trascorse ore dall’esplosione, il cielo era ancora pieno di polvere. Le strade del complesso industriale erano ancora vagamente riconoscibili, ma gli alberi erano tutti spezzati. Camminando tra le macerie individuammo l’edificio residenziale in cui avevamo vissuto quando eravamo in fasce; restammo lì per un po’, i tubi d’acciaio si estendevano disordinatamente come i rami di un albero. Calò il sole, l’oscurità si insinuò ovunque tra le crepe. L’edificio che in origine aveva sette piani ora era ridotto a un ammasso di cemento di due o tre metri, come un gigante ferito a morte, accasciato al bordo della strada. Haizhi all’improvviso fece un passo in avanti, si accovacciò e tirò fuori qualcosa dalla cenere, poi mi si avvicinò e aprì la mano: nel palmo teneva una biglia colorata di vetro. “Te la regalo” disse. Presi la biglia e la misi in tasca.
Chissà da quanto tempo non giocavo con le biglie.
Da quel giorno non vedemmo l’ora di scoprire cosa avrebbe sostituito la fabbrica di tela cerata.
Il nuovo grattacielo si alzò a una velocità impressionante, un piano dopo l’altro; arrivato a trentadue piani finalmente smise di crescere. Si trovava a ovest della città, era perfettamente quadrato, con i muri esterni gialli e i vetri blu scuro; sembrava un enorme chiodo colorato caduto dal cielo e piantato a terra. Era incastonato tra edifici bassi grigi e mesti, come un fiore circondato da erbacce. Era possibile vederlo da ovunque, stupendo, nuovo di zecca; nella vecchia città risaltava come un fiore nel deserto.
Il giorno in cui si tenne l’inaugurazione del grattacielo dell’elettricità, nel cantiere fu innalzato uno striscione rosso acceso. L’edificio stava per essere operativo.
Un anno e mezzo passò in un baleno. Avevamo visto il grattacielo svilupparsi dal nulla, come un albero che cresce da una terra piatta e arida, fiorisce e dà frutti.
Con lo sguardo rivolto allo striscione rosso dissi a Haizhi: “Il grattacielo è finito, possiamo salirci.”
“La scorsa notte l’ho sognato” rispose Haizhi. Sognò di salire le scale nell’oscurità, fino in cima; le gambe erano così pesanti da non poterle più muovere, non riuscì a raggiungere il tetto.
“Quanto è alto?” domandò Haizhi.
“Non so, sarà almeno ottanta metri.”
“Cosa si proverà a stare in piedi sul tetto?”
“Non siamo mai salite su un grattacielo così alto. Ci sarà un gran vento, questo è sicuro.”
“Siamo così magre, il vento ci porterebbe via. Cadere giù da lì non dev’essere il massimo.” Haizhi rise, le sue labbra si schiusero appena. La luce del sole risplendeva sul suo viso, i minuscoli peli sulle sue guance controluce sembravano dorati, e la pelle sottilissima celava minuscole e delicate vene rosse e verdi.
Decidemmo di scalare il grattacielo dell’elettricità. Non avevamo mai visto il panorama della città da così in alto.
Al tramonto, attesi Haizhi alla ferrovia con due torce. La vidi arrivare da lontano, a passi incerti. Indossava un abito da sera rosso: doveva essere un vecchio vestito della madre, non era della sua taglia. Portava un rossetto rosso acceso, persino le scarpe erano rosse. Sembrava una farfalla rosso fuoco, era molto intrigante. Camminammo lungo le rotaie, scavalcando le assi una ad una; procedemmo verso il grattacielo dell’elettricità a passi regolari, Haizhi davanti, io dietro. Le sue braccia candide come fiori di loto ondeggiavano delicatamente, la gonna si muoveva senza sosta, rivelando a tratti le sue gambe bianchissime che venivano subito nascoste dal vestito rosso. Ebbi di nuovo l’impressione che fosse un fantasma, temevo si trasformasse in un corso d’acqua.
Il caldo dell’estate iniziava a farsi sentire. Una goccia di sudore mi corse lungo la schiena, l’aria era ferma, il cielo era porpora. Non tirava neanche un alito di vento, il calore bruciava.
“Che caldo, sono tutta sudata” disse Haizhi con un filo di voce. Tirò un calcio a un sasso e lo seguì con lo sguardo. Poco lontano c’era una risaia, i cui colori stavano mutando dal verde al giallo: il riso stava per maturare.
Circa due ore prima non avevo ancora mai caduta/ceduto (坠落??) né avevo mai analizzato/scomposto un breve frammento di passato. [??]
Io e Haizhi scalammo lentamente il grattacielo. Arrivate al decimo piano, Haizhi era già stanca morta; l’ascensore non era ancora in funzione, e poiché non voleva gettare la spugna l’unica soluzione fu fermarsi sulle scale a riprendere fiato. Puntai la torcia verso Haizhi, che si coprì gli occhi: “Mettila via! Mi fai male agli occhi” disse arrabbiata.
Mi sedetti di fianco a lei. Eravamo circondate da un’oscurità sconfinata, labbra e gola erano secche. Perché siamo venute qui? Feci la stessa domanda a Haizhi quando scalammo a gran fatica il monte Jiming in bicicletta. Ero madida di sudore e le mie gambe non smettevano di tremare. Alla fine non ne valse neanche la pena: la vista non era niente di che e il sole era già calato, c’era solo un fiume striminzito che scorreva in un’arida pianura. Essendo inverno, sul picco della montagna imperversava un vento gelido, ci sentimmo congelare in pochi secondi. Tirai fuori un pacchetto di sigarette dallo zaino e ne offrii una a Haizhi, che la accese in mezzo alla bufera. Fece un tiro e iniziò a tossire. “Mi viene da vomitare, come fa la gente a fumare questa roba?” disse, lanciando la sigaretta accesa in mezzo alla prateria. Avevo paura che l’erba prendesse fuoco, così rimasi ferma a guardare. Del fuoco nessuna traccia. Ci sedemmo su una roccia a riposarci, poi, quando le gambe smisero di tremare, montammo sulla bicicletta e discendemmo la montagna pian piano. Giunte a valle, viso e mani si erano congelati, diventando duri come pezzi di ghiaccio.
Fu allora che domandai a Haizhi: “Perché siamo venute qui?”
Haizhi rispose: “Ah, non lo so, giusto per fare qualcosa.” Fece un lungo sospiro, si intristì. L’espressione malinconica sul suo viso era identica a quella di suo papà quando aveva perso l’aquilone. Si assomigliavano molto.
Arrivate in cima, al trentaduesimo piano, non avevamo neanche la forza di parlare. Haizhi prese coraggio, spalancò la porta e uscì. La vista, anche quella volta, non fu emozionante. Senza rendercene conto, iniziammo a dubitare seriamente di ciò che stavamo facendo. Il tetto non era ancora stato ripulito, le macerie erano sparse ovunque; il cemento in eccesso era stato abbandonato e ammassato qui, a causa della pioggia si era raggrumato e aveva formato un blocco unico. Sembrava di vedere degli uomini strisciare nella penombra. Come pensavamo, il vento era talmente forte da far paura. La sabbia volava ovunque, e il vestito di Haizhi si sollevò del tutto: la sua pelle era bianca, trasparente, sembrava davvero una farfalla.
Haizhi camminò verso il bordo, si voltò e si sedette sulla balaustra: non mi sorprese, lo facevamo spesso. Mi appoggiai a lei, le presi la mano, scambiammo due parole. Le sue mani erano morbide e delicate, come sempre. Sembrava di toccare le nuvole.
“Quanto siamo in alto!” disse Haizhi guardando giù. “Se precipitassimo, secondo te, quanto tempo ci metteremmo ad arrivare al suolo?”
“Un paio di secondi, direi.”
Haizhi mi fece l’occhiolino e disse: “Proviamo.” Si liberò dalla mia mano, si girò e volò giù come una grande farfalla rossa. Mi voltai immediatamente per afferrarle la mano, saltai sulla balaustra ma Haizhi era già stata inghiottita dall’oscurità. A guardare giù pareva che l’oscurità non avesse fine. Anch’io mi gettai nel buio, ma non riuscii a raggiungerla.
A un tratto capii perché il papà di Haizhi era entrato nel fuoco. È difficile da spiegare, ma capii. Quella volta Haizhi stava per seguire suo padre, se non l’avessi trattenuta con tutte le mie forze si sarebbe gettata nel fuoco anche lei. Stavolta nessuno mi fermò. Avevo perso Haizhi, se n’era andata sotto i miei occhi. Anche io fui persa, ma tanto chi aveva visto? Pensai per molto tempo. L’ultimo secondo fu lungo, così lungo… Se avessi potuto raggiungere Haizhi le avrei fatto la stessa domanda, di nuovo: perché siamo venute qui?
Pensai ancora che tutta questa storia doveva per forza essere partita dall’aquilone di pelle umana. Ero consapevole che non potesse essere davvero così, ma questo strano pensiero continuava a rimbalzare nella mia testa.